Gli anni '80 hanno rappresentato per il Giappone sia l'entrata in scena nel panorama mondiale della moda e dell'economia, sia la costruzione di una identità nuova, propria e di completa rottura rispetto a tutti i codici stilistici occidentali (qui l'intero approfondimento).
Il passaggio dalla decade d'oro al "decennio perduto" dei '90 è stato costellato da una continuità di integrità formale, rispetto delle tradizioni e, allo stesso tempo, una ricerca di evasione dettata dalle influenze musicali occidentali.
C'è però da sottolineare un fatto fondamentale, cioè che a distanza di quasi dieci anni dalla collezione Destroy del 1982 di Rei Kawakubo a Parigi gli occidentali sono riusciti a digerire il decostruttivismo e ne hanno attinto a piene mani.
L'inizio degli anni '90 in Occidente fu quindi rappresentato da una schiera di designer che si appellarono alle scelte punk degli stilisti giapponesi per standardizzare un nuovo modo di interpretare la propria identità. La moda negli Stati Uniti ed in Europa dei primi anni '90 fu definita minimalista.
Il minimalismo, di cui i giapponesi sono stati trend setter all'inizio degli '80, è una corrente artistica sviluppatasi negli Stati Uniti a partire dagli anni '60 e '70. Questo termine fu coniato dal filosofo dell'arte Richard Wollheim nell'articolo "Minimal Art" per Art Magazine, in cui analizzava il cambiamento dell'arte in quel periodo: riduzione della realtà, forme sferiche derivate dalla geometria, freddezza, enfasi sull'oggettività, strutture modulari, forme pure, colori neutri e materiali presi dalla tecnologia industriale. Sempre in quel periodo, l'architetto Mies Van Der Rohe ne coniò lo slogan: Less is more.
Il primo grande interprete nella moda di questa corrente fu lo stilista Helmut Lang che con la sua silhouette severa, i tessuti tecnici e sintetici, eliminò la divisione di genere proponendo uno stile androgino. Tolse il superfluo ed il romanticismo, fondendo per la prima volta la moda borghese con lo stile di strada delle classi più disagiate.
Riallacciandosi invece in maniera più viscerale al decostruttivismo della Kawakubo vi fu l'avanguardista Martin Margiela, che distrusse e ricompose i vestiti riprendendo una libertà sartoriale tipica degli anni '70 e il kintsugi. La sua visione, così come quella giapponese, era di sottrazione e recupero invece che di lusso e di ostentazione, valori propri dell'edonismo degli anni '80. Riprese il concetto di rottura materiale propria del punk, come dimostrano i jeans e le magliette tagliate. Tolse i colori ai vestiti e le forme del corpo, riducendo all'osso la carica erotica.
Queste furono le basi di una nuova concezione dell'abito, che per la prima volta era considerato oggettivamente brutto e che rappresenta una serie di valori disturbanti e antiestetici. Non fu dunque un caso che questi designer non vennero compresi fin dall'inizio, ma che anzi siano stati criticati e osteggiati ferocemente.
Lo stile francese e quello italiano degli anni '80 erano stati considerati come l'apice del lusso e del benessere sociale ed economico. Giorgio Armani fu il primo grande interprete della transizione verso uno stile più comodo e androgino, con i suoi abiti morbidi inno alla borghesia e al perbenismo ed in totale contrapposizione alla seduzione colorata e intrigante di ispirazione classica di Gianni Versace. Armani riportò in auge i valori del potere maschile e femminile, i quali abiti monotoni erano privi di carica erotica. Non a caso una delle sue collezioni più iconiche del 1981-82 fu ispirata proprio al Giappone.
Il salto ulteriore, che in Italia portò all'inaugurazione di una nuova era, è stato fatto da Miuccia Prada.
Divenuta proprietaria nel 1978 dell'iniziale pelletteria Fratelli Prada (fondata nel 1913 con sede in Galleria Vittorio Emanuele), Miuccia propose nel 1988 la sua prima sfilata pret-à-porter che non piacque alla critica. Con essa istituì però per la prima volta il brutto nella moda, l'"ugly chic" caratterizzato da motivi degli anni '60 e '70, colori "immettibili" come il marrone, materiali non convenzionali come il nylon e la produzione di it bag dal design anonimo (come lo zainetto del 1985 in Pocono, materiale da lei brevettato).
Miuccia ha avuto la capacità di attingere dal suo passato femminista e controcorrente (in gioventù fu una sessantottina) e di definire lo stile della borghesia milanese unendo il taglio fortemente sartoriale degli abiti con il vezzo femminile.
Grande amante e collezionista d'arte moderna (Osservatorio e Fondazione Prada), Miuccia ha sempre avuto un legame molto forte col Giappone. Celebre è infatti il palazzo Prada ad Aoyama, Tokyo, progettato da Herzog & de Meuron, così come anche i numerosi riferimenti al nipponismo nelle sfilate - come la collezione SS 2013.
Il brutto, il cattivo gusto e la sartorialità si ritrovano anche nelle prime sfilate di Alexander McQueen, il cui genio teatrale portò la moda su un livello altro, quello dello stato dell'arte. La moda di McQueen era disturbante, malata, incomprensibile e grottesca. Le sue prime collezioni si rifacevano al medioevo, agli incidenti automobilistici, al tema della morte e dello stupro. Molte delle sue sfilate non piacquero a nessuno, alcune fecero persino scappare i presenti. Fu perfino costretto a lasciare Givenchy dopo John Galliano (altro sovversivo inglese). Definito "hooligan della moda", McQueen prese a piene mani dalla couture e dalla sartorialità inglese di Savile Row fondendoli con le subculture della strada, creando dei veri e propri tableaux vivant e rappresentazioni museali.
La cultura del "sick" fu anche quella che permise a Tom Ford di salvare il marchio Gucci in quegli anni, proponendo uno stile languido con delle connotazioni glamour tipiche degli anni '70 americani.
Restando negli Usa, un altro designer cambiò il modo di vestire degli occidentali così come il modo di percepire il proprio corpo: Calvin Klein divenne celebre per avere rivoluzionato l'intimo, introducendo i boxer da donna ed eliminando qualsiasi frivolezza da abiti e nella biancheria.
Il suo stile "sick" e minimalista fece enorme scalpore quando raggiunse l'apice della celebrità nel 1995 con la campagna pubblicitaria del profumo Obsession, realizzata dal fotografo Herb Ritts e quella che all'epoca era una modella sconosciuta: Kate Moss. Totalmente diversa rispetto ai canoni estetici di quel periodo, la Moss era bassa, estremamente magra e con un viso da bambina. Il suo corpo ancora acerbo fece gridare allo scandalo per pedofilia e la campagna fu ritirata solo dopo tre settimane dal lancio. Era l'estetica "heroin chic" che andò di pari passo con la proposta di Klein della nuova divisa dei newyorkesi: il tailleur da ufficio e da aperitivo serale. Comodo, versatile e glam, gli uomini e le donne di New York si vestivano allo stesso modo dando un'immagine di successo - un'interpretazione moderna del tailleur che scardinava per la prima volta la rigorosa divisa da ufficio tipica di New York ma che invece permaneva in Giappone e che definiva l'estetica dei salaryman di Tokyo.
Tra le varie motivazioni che portarono i giapponesi a cercare una identità nella strada vi fu proprio la ribellione alla divisa, sia scolastica che da ufficio. Negli anni '90 si definì una rivoluzione di costume che aveva già iniziato a prendere piede poco tempo prima con la versione bodikon da discoteca.
La stessa Kawakubo, che negli '80 aveva scardinato qualsiasi certezza di costume occidentale, anche nei '90 continuò il suo discorso filosofico in passerella, anticipando i tempi e distruggendo qualsiasi tipo di convenzione.
Nel 1992 presentò la collezione Unfinished, emblema della sua ricerca intellettuale: abiti primitivi che riportavano ad un inizio che era sia meta che punto di approdo della sua riflessione sul processo creativo.
Il 1993 fu l'anno di Synergy: Sei mesi prima la Kawakubo anticipò la collezione di Marc Jacobs per Perry Ellis (dopo la quale sfilata Jacob verrà licenziato dal brand - si ricorda l'editoriale per Vogue America realizzato da Steven Meisel e Grace Coddington): due collezioni che definirono l'estetica grunge, subcultura della scena musicale di inizio anni '90 di Seattle e incarnata da Kurt Cobain dei Nirvana.
Lo stile grunge era rappresentato da camicie in flanella, slip dress, Doc Martens, jeans logori e capi over.
Nel 1995 presentò la collezione Trascending Gender, in cui il guardaroba maschile venne decostruito, arricchito con rouches ed indossato dalle donne.
La summa stilistica di Comme des Garçons la si può probabilmente trovare nella collezione del 1997 Dress Meets Body, Body Meets Dress: non esiste limite alla silhouette e ai confini delle forme del corpo umano, che viene allargato, pompato, portato all'eccesso e deformato in sculture anatomiche grottesche.
Nonostante il Giappone abbia presentato ancora una volta una concezione del corpo così estraniante all'Occidente, e nonostante quest'ultimo all'inizio dei '90 abbia imparato ad esprimersi con la moda, il cinema, la fotografia e la musica in senso concettuale e minimale, in quel primo momento il Sol Levante appariva ancora agli occhi del resto del mondo come un curioso ibrido caratterizzato da una incredibilmente numerosa schiera di salaryman che trascorreva il tempo in ufficio e da invenzioni tecnologiche assurde e irraggiungibili. I giapponesi sembravano creature strane, standardizzate, meccanizzate, senza un'anima, capaci di creare nell'arte qualcosa di inumano e destabilizzante.
La prima metà degli anni '90 in Giappone vide le basi per cambiamenti che risulteranno epocali per la stessa terra del Sol Levante.
Nel 1989 morì l'imperatore Hirohito, il cui nome è ancora oggi legato a doppio filo al boom degli anni '80 del mercato immobiliare (solo a Tokyo il valore degli immobili aumentò di oltre il 60% in un solo anno - Ryu Murakami descrisse molto bene gli ultimi anni '80 in Giappone nel suo libro Tokyo Decadence e nell'omonimo film). Il suo successore fu Akihito: nel 1991 venne segnata la fine della "bolla speculativa" in Giappone e iniziò un lento declino nella stagnazione economica. Tuttavia, in un primo momento vi era ancora una profonda voglia di restare ancorati ai fasti degli anni '80 e le generazioni più giovani si attennero agli stilemi del vecchio edonismo di matrice europea reinterpretandolo in maniera più naturale. Era il caso del shibukaji (Shibuya casual - una interpretazione nipponica in un certo senso fusione del Bon Chic Bon Genre, bodikon e Preppy dei giovani delle classi più agiate) e del french casual, stile nato sull'onda di brand come Agnès b, ispirato a una moda francese vintage costituita da trench beige, magliette a righe, baschi e colori ripresi dalla bandiera nazionale francese.
Vennero anche poste le basi per quello che a fine Millennio sarà il trend delle liceali (kogal), lo stile paragal (paradise girl), ispirato al casual californiano che non rinuncia alla femminilità.
L'espressione dell'omosessualità maschile venne rappresentata dallo stile femmi, che si rifaceva alla moda dei club anni '70-'80 e si contraddistingueva per gli outfit appariscenti, attillati e accessori bondage. Il confine di genere si assottigliò sempre più fino a che i generi si mescolarono del tutto.
Si trattava di un trend che anche in Occidente aveva preso piede grazie alla scena musicale del rock elettronico, new wave e rock alternativo, come dimostrano gruppi dal look queer, glam e con richiami feticisti come Depeche Mode e Placebo.
E' importante ricordare che ai quei tempi non c'era internet: i trend arrivavano in Giappone attraverso musica, film, riviste o, per i pochi fortunati che potevano viaggiare, i look venivano importati in patria. Ciò che i giapponesi hanno fatto è stato partire da un concetto e svilupparne un trend che ne ricalcasse tutti gli aspetti: abiti, accessori, comportamento, linguaggio e stile di vita. Ciò che aveva fatto la Kawakubo (esprimere appunto un concetto attraverso la moda come forma artistica) a partire dagli anni '90 venne fatto anche dai ragazzi che passeggiavano per Shibuya e Harajuku, i centri della moda giovanile di Tokyo.
Proprio nei pressi di Harajuku, nella silenziosa area di Arahara, si sviluppò la fucina dello street-style giapponese grazie a Hiroshi Fujiwara: negli anni '80 egli visitò New York dove venne a contatto con la scena hip hop - genere musicale nato negli anni '70 nel Bronx e che sarà ben rappresentato anni dopo da Larry Clark nel film Kids (1995).
Fujiwara fu il primo a portare le produzioni musicali statunitensi in Giappone, così come anche la cultura dei graffiti, il rap, la break dance e lo stile d'abbigliamento urbano che si fuse con la concezione punk tipica nipponica di quegli anni: egli fu il padre fondatore della scena Ura-Harajuku e uno dei maggiori influencer di street-style a livello mondiale (si ricordano le linee HTM per Nike e Fenom per Levi's), fondando nel 1990 il suo brand Good Enough.
Altri due nomi fecero la storia della moda di quegli anni. Tomoaki Nagao (in arte Nigo) che, dopo gli studi al Bunka Fashion College (lo stesso dove studiò Yohji Yamamoto), stampò le prime t-shirt oversized da abbinare a jeans di seconda mano, pantaloni cargo e sneakers Nike. Lavorò insieme a Jun Takahashi (di Undercover), aprendo nel 1993 il negozio Nowhere, punto di riferimento per artisti di strada e coloro che non riuscivano ad inquadrarsi nei canoni della società.
Qualche tempo dopo, Nigo aprì il negozio del suo brand Bape (A Bathing Ape) poco lontano da Nowhere, dove fece disegnare i graffittari sui fogli invece che sui muri in modo da riportare i disegni su felpe e t-shirt, il nuovo abbigliamento dei b-boy e delle b-girl (coloro che ballavano la break dance). Non a caso Bape collaborò con il marchio Supreme, che in quegli anni stava spopolando a New York.
Questi artisti trovarono spazio anche nelle riviste di settore del tempo: Fujiwara curò infatti la rubrica "Last Orgy" per Takarajima (magazine che dagli anni '70 di occupava di subcultures), mentre Nigo scrisse per Popeye (la cui rubrica fu ribattezzata "Last Orgy 2"): entrambi trattavano temi riguardanti le sub-culture, skate, dj, moda urbana, punk inglese (qui un approfondimento su questo tema) e cinema.
Per la prima volta che una fetta così giovane della società giapponese si ribellava in maniera evidente agli standard imposti. I ragazzi che vestivano street-style erano ventenni che non riuscivano a trovare il loro posto all'interno di una società opprimente e che aveva aspettative altissime. E' infatti noto quanto la scuola giapponese sia impegnativa e decisiva per il futuro degli studenti: molti di loro si ritrovarono per la prima volta a non voler corrispondere all'ideale sociale prestabilito.
Negli anni '70 vi erano le bande femminili nelle scuole (le sukeban) che portavano disordine e causavano risse, ma erano casi isolati di studentesse fallite e ragazze fallite. Il fenomeno dei '90 fu invece molto più esteso e radicato.
Negli anni della Guerra Fredda e della paralisi economica, uno dei paesi con la crescita più veloce ed incredibile al mondo scoprì una gioventù irrequieta che voleva trovare una identità al di fuori della divisa scolastica o da ufficio e che si serviva dei canoni stilistici della periferia di New York per mostrare la non appartenenza ad un ordine granitico, che tanto affascinava e che ancora oggi incuriosisce l'Occidente.
Ciò che è interessante è che i giapponesi hanno preso lo street-style statunitense, lo hanno digerito e proposto in maniera del tutto personale e che oggi, nella seconda decade degli anni '00, gli occidentali (soprattutto europei) riprendono questi codici per determinare con la musica trap (sottogenere del hip hop) il malessere dato dalla crisi economica, la stagnazione dei consumi e dall'incertezza causata dalla più grande pandemia globale della storia.