Gli anni '90 in Giappone sono ricordati come il "decennio perduto" a causa dello scoppio della bolla speculativa di fine anni '80 (qui la prima parte dell'approfondimento).
Quella che sembrava fin dall'inizio l'entrata in una crisi economica profonda è stata tale solamente nel 1997, quando la Crisi asiatica dalla Tailandia si espanse nel bacino asiatico. A causa di una mancata coerenza di scelte politiche essa comportò carovita, disoccupazione e fallimento delle banche. Tutto ciò si tradusse in cambiamenti sociali, col raggiungimento picco massimo di aspettativa di vita e un drastico calo delle nascite.
Per contrastare questa profonda crisi, in quanto seconda potenza mondiale a quel tempo, optò per una massiccia esportazione di beni tecnologici all'estero, la cui produzione raggiunse uno dei massimi picchi di sempre.
Due aziende si distinsero in quegli anni per l'altissima qualità di prodotti tecnologici.
La prima fu Nintendo, già celebre negli '80 per il Game Boy, la consolle più longeva della storia della tecnologia con 13 anni di vita dal lancio.
La seconda azienda fu Sony. Sony Music negli anni '90 diventò la major più grande ed importante del mondo (le altre due più importanti sono Universal Music Group e Warner Music Group), ma la vera svolta Sony la fece col mercato dei videogiochi.
Nel 1993, dopo avere ritirato il progetto per un lettore CD per il Super Nintendo, Sony lo trasformò in una consolle: nel 1994 lanciò sul mercato Play Station che diede vita alla più grande rivoluzione delle consolle di tutti i tempi anche grazie a spot pubblicitari dal forte impatto emozionale. L'audience coinvolta fu ampissima, tanto da cambiare la quotidianità familiare.
Si stima che solamente tra il 1999 e il 2000 furono vendute circa 40 milioni di unità. Furono realizzati videogiochi di altissima qualità e varietà, alcuni dei quali, soprattutto per i contenuti narrativi alla base della trama, sono perfettamente paragonabili a opere letterarie. Tra i migliori videogiochi di tutti i tempi per Play Station si ricordano Final Fantasy VII e VIII, Resident Evil, Tekken, Silent Hill, Gran Turismo, Metal Gear Solid ma anche Tomb Raider (prodotto in Inghilterra) e Crash Bandicoot (prodotto negli Stati Uniti).
Sempre in virtù dell'espandersi a macchia d'olio delle nuove tecnologie, prese piede sempre ad Harajuku la moda cyber (ne parlo anche qui), rappresentata da look pop e futuristici con tessuti sintetici e artificiali, accessori di plastica e metallo, scarpe esagerate
Il telefono cellulare divenne un device indispensabile nella vita di tutti i giorni, soprattutto degli adolescenti, ed erano strutturati in modo da poter essere utilizzati solamente in Giappone (da qui il nome "Galapagos"), per mandare email via internet ed effettuare acquisti come se fosse un bancomat. Legati al mondo dei cellulari giapponesi vi era il merchandising composto da ornamenti, adesivi e lacci (keitai sutorappu) che crearono un vero e proprio business.
Tra la fine degli anni '90 e l'inizio dei '00 si delineò anche un nuovo genere letterario chiamato cellphone novel, ovvero "romanzi per cellulare", composti da circa 70-100 parole a messaggio. I temi trattati erano soprattutto legati ai problemi dell'adolescenza, relazioni sentimentali e sessuali, gravidanze. Il film My Rainy Days è ispirato a uno di questi romanzi. In relazione a queste tematiche e all'uso dei cellulari vi è la problematica sociale dell'enjo kōsai, di cui consiglio l'approfondimento su Rope a Shibuya e la l'articolo sui film legati a questo fenomeno di quegli anni.
Allo stesso tempo si continuò a profilare una letteratura che definirei "istituzionale" rappresentata da due grandi autori che avevano cominciato ad essere apprezzati già dagli anni '80: Haruki Murakami e Banana Yoshimoto. Entrambi hanno rappresentato lo spartiacque tra la letteratura del dopoguerra (tra i quali autori spicca il grande Yukio Mishima) e la transizione all'internazionalizzazione con i romanzi Tokyo Blues e Kitchen. Questi furono innovativi per la facilità di consumo e per essere portavoce di una gioventù metropolitana.
Murakami si distinse per i numerosi riferimenti alla cultura americana, mentre la Yoshimoto per il suo stile minimalista e per le tematiche riconducibili allo shōjo manga (destinato ad un pubblico prevalentemente femminile).
Non è stato difatti un caso che durante gli anni '90 siano stati diffusi massicciamente manga e anime all'estero, costituendo un nuovo immaginario in Occidente. Tra i titoli più apprezzati: Ranma 1/2, Sailor Moon, Slum Dunk, Card Captor Sakura, Lupin III e Neon Genesis Evangelion (vero e grande emblema di quegli anni).
La cultura manga era talmente radicata nel sentire giovanile che nel quartiere Harajuku iniziarono comparire i cosplayers, persone che vestivano i panni dei loro personaggi preferiti. Si trattava di un fenomeno già in voga negli '80 ma che vide la sua massima espressione alla fine dei '90 anche grazie alle numerose convention del fumetto (Comiket, sempre preso d'assalto dai fotografi), prima del grande exploit negli USA e in Occidente nei '00.
A proposito dei numerosi cambiamenti sociali e al massiccio sviluppo tecnologico l'Occidente ha detto molto del Giappone soprattutto in maniera negativa in quegli anni. Il trend della passione per l'Asia e soprattutto per il Giappone è qualcosa di recente e anche molto lontano rispetto a quanto riportava l'apparato mass-mediale del tempo. L'idea di un Sol Levante da cartolina, il cui il food è ciò che più interessa e dove tutti sono in pace perseguendo gli ideali zen della felicità è inveritiera soprattutto se si pensa agli anni '90.
La grande crisi che ha piegato l'economia giapponese, e che molti critici hanno paragonato a quella del '29 in America, ha portato a problematiche sociali importanti e che hanno contribuito da dare una precisa immagine del Giappone del tempo: l'hikikomori (letteralmente "stare in disparte", "isolarsi").
Si tratta di un fenomeno nipponico iniziato a metà anni '80 e che ha avuto un grande incremento dieci anni dopo, legato a depressione, comportamenti ossessivo-compulsivi e manie di persecuzione. Gli hikikomori, con una media di età tra i 19 e i 30 anni e provenienti da un ceto sociale medio-alto, decidevano di isolarsi volontariamente dalla società e dalla famiglia, vivendo all'interno di una stanza stipata di oggetti senza uscire nemmeno per lavarsi e chiedendo che il cibo venisse lasciato davanti la porta. Il ciclo vitale veniva invertito: le ore notturne erano dedicate soprattutto al mondo manga, anime e videogames mentre di giorno dormivano. Per gli hikikomori non esistevano contatti umani, gli unici rapporti possibili erano quelli mediati da internet.
Alla base di questo fenomeno la critica ha riscontrato la mancanza di una figura paterna (problematica estremamente diffusa in tutto il Giappone, causata dai trasferimenti lavorativi), l'eccessiva protezione materna ma soprattutto l'enorme pressione sociale per l'auto-realizzazione ed il successo personale fin dalla scuola elementare.
A partire dagli anni 2000 questa problematica si è diffusa anche negli USA e in Europa.
Si tratta di un tema importante che negli anni '90 è stato trattato anche in anime e manga tra cui, probabilmente primo tra tutti, Neon Genesis Evangelion: il protagonista Shinji Ikari incarna lo spirito della gioventù di quel periodo che soffre sensibilmente per i cambiamenti sociali, il sistema educativo, l'instabilità del lavoro e la pressione sociale; Shinji difatti ha problemi relazionali, rifiuta il mondo esterno e non possiede una figura parentale positiva.
Sempre in quegli anni si parla sempre più spesso degli otaku (letteralmente "la sua casa"): si tratta di un termine giapponese che indica una precisa subcultura nata negli anni '80 che accomuna appassionati in maniera ossessiva di manga, anime e videogiochi.
Se in Giappone l'otaku era visto in maniera negativa perché riguardava persone socialmente isolate e alienate, in Occidente indicava sia persone appassionate di queste tematiche, sia di tutto ciò che deriva dal Giappone, senza implicazioni negative (oggi si userebbe il termine "nerd").
Il cambiamento di visione dell'otaku anche in Occidente è stato causato da un fatto di cronaca dall'interessante gestione mediatica.
Nel 1989 il giornalista Akio Nakamori (che già negli anni precedenti si era occupato del fenomeno otaku) pubblicò un articolo sul serial killer Tsutomu Miyazaki definendolo "l'assassino otaku"; egli balzò sulle prime pagine per avere ucciso e violentato quattro bambini, mangiandone parti del corpo.
Da quel momento i giornali pubblicarono in maniera massiccia le foto della sua stanza, in cui erano ammassate oltre 6000 videocassette e fumetti, di cui molti hentai (in giapponese significa generalmente "pervertito", nell'ambito manga e anime è riferito a prodotti erotici/pornografici) che ricoprivano le finestre fino al soffitto.
Si scatenò una vera e propria psicosi mediale che portò alla visione profondamente negativa degli otaku, ghettizzati nel quartiere Akihabara e visti come disadattati problematici, alla pari degli hikikomori.
Tsutomu Miyazaki era inoltre un grande appassionato di film horror estremi: nella sua collezione la polizia trovò i primi cinque film della serie splatter Guinea Pig: egli si sarebbe ispirato al secondo film (Flower of Flesh and Blood) per la realizzazione dei suoi atti atroci. Si trattava di prodotti estremamente realistici, tanto che nel 1991 l'attore Charlie Sheen chiese un'indagine da parte dell'FBI per confermare che non si trattasse di uno snuff movie reale (non lo era).
Questo antefatto gettò profondo panico morale in Giappone e di conseguenza in Occidente, alimentando l'idea che il Sol Levante fosse popolato da persone strane e violente. In un tempo in qui non esisteva internet veloce e pervasivo come lo è oggi, un paese così lontano e diverso appariva come deviato.
La realtà è che tutta la produzione consumata dagli otaku, ovvero l'underground, è stata il banco di prova per il mainstream di grande successo.
Il cinema di nicchia in Giappone, in senso più generico, ha realizzato molti film emblematici di quegli anni grazie ad autori più o meno in vista che hanno saputo rappresentare i cambiamenti e le problematiche del tempo (tra i più importanti, Takashi Miike) - in questo filone si trovano molti esempi di cinema explotation (genere cinematografico che non persegue valori artistici in modo canonico ma mette in scena elementi shockanti).
Uno dei documentari di nicchia che meglio ha rappresentato i giovani giapponesi degli anni '90 è stato Hell Bento del 1995, dei fratelli Anna e Adam Broinowski (figli di diplomatici australiani).
Nel documentario vengono presentate le sub-culture di Tokyo (potete vederlo qui) attraverso i numerosi temi trattati: sessualità e identità di genere (drag queen, HIV, lesbismo), le geisha (Hana chan, una geisha amante del punk), droga (speed shabu), yakuza (con tanto di intervista a due di loro), senzatetto, il gruppo nazionalista di estrema destra Uyoku dantai, la scena musicale noise e punk (The Jet Boys, Guitar Wolf e Merzbow), nonché il gruppo The 5.6.7.8'S, presente anche in Kill Bill di Quentin Tarantino.
Da tutto ciò si evince ancora una volta come la creatività underground stava iniziando ad interessare i media occidentali, che da gaijin non capivano quanto il Giappone fosse già all'epoca iconoclasta.
Se nei primi anni '90 i ventenni rifiutavano l'oppressione della divisa attraverso lo street-style e l'hip hop, nella seconda metà del decennio la nuova nuova tendenza fu quella del gyaru (da gal, "ragazza"): macro-area o anche "stile spettro" all'interno della quale si riscontrano numerosi trend che si svilupparono negli anni riguardanti esagerazioni sovra-rappresentate degli adolescenti americani.
Queste tendenze rappresentavano la non conformità delle ragazze al ruolo della donna in una società che decise di catalogarle come ribelli, delinquenti e prostitute.
Shubuya fu il punto di riferimento delle gyaru, soprattutto il centro dello shopping Shibuya 109.
Tra le ragazze-riferimento del tempo si ricordano Tsubasa Masuwaka, Kumiko Funayama, Kaoru Watanabe, Sayoko Ozaki, Rina Sakurai (da cui il film Girl's life).
La prima tendenza all'interno del gyaru fu quella delle kogal ("piccola ragazza"), la moda delle studentesse che indossavano l'uniforme scolastica con gonne molto corte e loose socks. Si trattava di ragazze che cercavano un modo per personalizzare la propria divisa anche rischiando l'espulsione (nei licei giapponesi non era consentito aggiungere accessori alla divisa).
Il termine usato inizialmente era kogyaru ("ragazza del liceo") e veniva usato dai buttafuori delle discoteche per distinguere le minorenni dalle donne adulte. Le ragazze usavano invece il termine gyaru, usato per la prima volta nel 1972 in una pubblicità televisiva di jeans. Nel 1993 lo speciale Za Kogyaru Naito ("The kogal night") presentò per la prima volta questo stile al pubblico di massa.
Si trattò di una moda legata ai purikura (cabine per le foto-tessere con effetti speciali kawaii) e i love hotel, caratterizzata da un linguaggio ricco di neologismi ed espressioni liberali legate alla sfera sessuale. Questo stile fu documentato da riviste specializzate già negli anni '70 e '80 come Popteen e Happie Nuts (magazine i cui editori erano precedentemente coinvolti nella pornografia per uomini). Nel 1995 venne fondato Egg che divenne la principale rivista di riferimento in cui venivano pubblicate le foto delle ragazze ritratte sulle strade di Shibuya. Nel 1997 fu la volta del magazine Fruits ad opera di Shoichi Aoki, che da allora ritrasse in centinaia di scatti lo street-style giovanile.
Le kogal sono state criticate per il loro stile di vita consumistico, materialista, dedito solamente al divertimento, alle discoteche (para para dance) e per questo parassita nei confronti dei genitori. Per la critica erano lo spettro del vuoto spirituale del Giappone moderno.
Alcune di queste ragazze, non sovvenzionate economicamente dalle famiglie, furono associate al fenomeno dell'enjo kōsai e della prostituzione minorile in cambio di soldi e accessori alla moda (ne parlo qui e qui), sfoggiando poi spesso look succinti ispirati a quelli del 1994 della cantante Namie Amuro (che per la prima volta mostrava la pelle abbronzata).
La moda kogal raggiunse il picco nel 1998, venendo soppiantata dallo stile ganguro.
Il passaggio dal kogal al ganguro è stato caratterizzato dalla comparsa dello chapatsu (termine che indica la decolorazione o colorazione dei capelli) per sottolineare l'abbronzatura e ribellarsi in modo evidente ai canoni tradizionali. Il principio che sta alla base di questa ulteriore evoluzione delle sub-culture giovanili è proprio quello di trovare una linea stilistica in profonda contrapposizione con l'idea canonica di bellezza nipponica, ispirandosi allo stile delle ragazze californiane. Proprio nella seconda metà degli anni '90 in Giappone è stata trasmessa per la prima volta la serie Baywatch, una delle ispirazioni dello stile ganguro.
La sfaccettatura più leggera ed accessibile era quella delle ganjiro ("faccia bianca"), che presentavano un trucco leggero, capelli colorati e assenza di abbronzatura.
Il ganguro ("faccia nera"), di contro, presentava un'abbronzatura molto scura, capelli tinti spesso decolorati (rosa shocking, arancione, grigio argento o biondo platino), inchiostro nero come eye-liner, correttore bianco come ombretto, cipria e rossetto perlacei, ciglia finte, adesivi applicati sul viso, abiti kitsch e succinti, braccialetti e collane hawaiane.
Una delle primissime ganguro venne resa famosa dalla rivista Egg col nickname Buriteri (salsa di soia scura usata per il teriyaki): grazie alla notorietà data dal magazine, lavorò come modella e fece la pubblicità per un solarium. A causa della pressione sociale dovette ritirarsi - oggi vive una vita normale ed è diventata mamma.
La terza declinazione del ganguro è lo stile estremo delle manba o yamanba, caratterizzate da un'abbronzatura ancora più scura, ombretti pastello, rossetto bianco, adesivi e brillantini sugli occhi, lenti a contatto colorate, abiti fluorescenti e plush della Disney come accessori.
Di questo trend vi era anche l'equivalente maschile, sentaagai ("ragazzo da via centrale"), come riferimento alla via dello shopping nei pressi di Shibuya dove erano soliti fare compere.
Alla fine degli anni '90 Harajuku tornò ad essere al centro dell'attenzione per un nuovo "fashion fight". Molte ragazze, stanche del modello kitsch delle ganguro, intrapresero un'inversione di rotta nella scelta dello stile, ispirate da due correnti ben precise. La prima riguardava la moda otome (celebre negli anni '80 per unire il romanticismo di derivazione francese col kawaii nipponico), la seconda l'evolversi della scena musicale J-Rock (kote kei negli anni '80): il visual kei.
Il nuovo trend in viga era il lolita: sottocultura giapponese che non aveva niente a che fare con Nabokov o feticismi sessuali, ma che era ispirata all'epoca vittoriana e al rococò, presentava valori di purezza ed innocenza infantili in netto contrasto con le aspettative sociali che volevano la donna adulta e consapevole, pronta per essere una madre di famiglia.
Il lolita si distingueva per l'attenzione maniacale alla manifattura di abiti e accessori molto costosi (chi non poteva permetterseli imparava a cucirli a casa) realizzati da brand che erano già attivi negli anni '70, come Pink House, Milk, Pretty (poi rinominato Angelic Pretty), seguiti successivamente da Baby, The Stars Shine Bright e Metamorphose Temps de Filles.
Lo stile lolita è un genere che contiene molte sotto-categorie. Il successo mondiale di questo insieme di stili lo si deve principalmente a Mana. Figura controversa e discussa, Mana ha rappresentato la scena visual kei in quel periodo.
Durante gli anni '90, quello che nel decennio precedente era indicato come kote kei si evolse nel visual kei, i cui gruppi ebbero grande successo anche fuori dal Giappone. Si trattava di band con un concept artistico di tipo teatrale, che prendevano ispirazione dalla new wave, dalla musica classica e dal metal, che avevano una fandom principalmente femminile e che ponevano un'attenzione maniacale al look: per questo motivo la stampa pubblicò un alto numero di riviste, book e approfondimenti, proprio perché l'abbigliamento e il make-up spesso erano più importanti della musica stessa. Tra i magazine più apprezzati: Cure e Neo Genesis.
X-Japan fu probabilmente il gruppo pioniere del visual kei che, con la morte del leader Hide nel 1998, persero un modello fondamentale. Tra le altre band più conosciute vi erano i Dir en Grey e i Malice Mizer, di cui Mana era il chitarrista cross-dresser e modello per la rivista di maggiore riferimento Gothic Lolita & Bible. Nel 1999 fondò la sua casa di moda Moi-même-Moitié, indicando per la prima volta col termine "gothic" lo stile lolita. Egli era solito disegnare e realizzare i suoi costumi di scena, divisi nelle categorie specifiche Gothic Lolita e Gothic Aristocrat, entrambe fondamentali per la diffusione di questa subcultura ad Harajuku.
Il gothic lolita è una delle prime e principali declinazioni del lolita, caratterizzato da austerità, trucco e vestiti scuri, cipria bianca e uso di gioielli religiosi. Atelier Pierrot fu uno dei brand più apprezzati.
Lo sweet lolita è il genere più innocente e femminile, ispirato al rococò, all'epoca vittoriana ed edwardiana. Si contraddistingue per i colori pastello, il trucco tenue e i temi riguardanti dolci, frutta, cuccioli di animali, fasce, cuffie e Alice nel paese delle meraviglie. I brand di riferimento erano Angelic Pretty, Baby, The Stars Shine Bright e Metamorphose Temps de Filles.
Il classical lolita è la declinazione più matura e sofisticata, rappresentata da abiti dal taglio adulto, l'assenza di pattern vistosi ed un trucco naturale. I brand di riferimento erano Juliette et Justine, Innocent World, Victorian Maiden e Mary Magdalene.
Il punk lolita presentava tessuti strappati, borchie, catene, cravatte, tartan, abiti asimmetrici, spille da balia e anfibi. I brand principali: Putumayo e Na+H.
Lo stile lolita comprendeva anche una lunga serie di stili secondari.
Il princess lolita si rifaceva alle principesse europee. Si ritiene che da questo stile sia nato l'hime gyaru all'inizio degli anni 2000.
Shiro e kuro lolita riguardano i colori bianco e nero, spesso chi indossava questa categoria girava per le strade a coppie.
Ōji lolita era considerata la controparte maschile (pantaloni alla zuava, calzettoni e cilindro), sebbene fosse uno stile indossato anche dalle ragazze.
Il guro lolita era rappresentato da elementi horror come bende mediche e sangue finto. L'obiettivo finale era sembrare una bambola di porcellana rotta.
Il sailor lolita derivava dallo sweet lolita, e presentava dettagli alla marinara. Ne faceva anche parte il pirate lolita, rappresentato da ALICE and the PIRATE (sotto-marchio di Baby, The Stars Shine Bright).
Il country lolita fu sempre un sottogenere dello sweet lolita con l'aggiunta di accessori come borse e cappelli di paglia.
Il wa lolita aggiungeva di accessori e pezzi di abbigliamento tradizionali giapponesi, come i kimono.
Il qi lolita inseriva invece elementi tradizionali cinesi.
Il casual lolita fu la declinazione più comoda per la vita di tutti i giorni, composta da semplici felpe e magliette.